Lettera per davide (con qualche nota per il lettore)
Quando hai sposato la Polaroid[1] è stato per aderire con immediatezza all’eventuale.
Quando hai fotografato esattamente i luoghi corrispondenti ai punti di vista degli anonimi fotografi di cartoline urbane, ovvero ha scattato inquadrando la porzione di spazio dove presumibilmente, secondo i tuoi calcoli, ciascuno di loro poggiava i piedi, mentre facevi una specie di censimento delle sorgenti dello sguardo e un inventario indiretto delle vedute, eri un paesaggista molto sui generis.[2]
Quando mescolavi le carte fra galassie e polveri, saresti piaciuto anche a De Chirico che ti avrebbe accolto con onori fra gli s/paesaggisti.[3]
Quando disegnavi l’aria in omaggio a Munari, ripetevi anche il gesto duchampiano che ha introdotto l’alea nell’arte visiva contemporanea, ma tu, in sintonia con il primo e diversamente dal secondo dei tuoi riferimenti, sceglievi di scattare durante il volo piuttosto che documentare l’arresto, l’assetto preso dagli oggetti dopo la caduta. Si trattava ancora una volta di captare e restituire una configurazione casuale e momentanea (questo il vero senso dell’istantanea).
Quando che hai mostrato la tua città, le gambe di Inez come Arco della Pace, sottolineavi che l’unico luogo da cui tutto il resto deriva è il vissuto e ti comportavi come un reporter sentimentale.
Quando hai svelato la musica innata dei petali che cadono,[4] eri come Lorenz con le sue oche, una specie di etologo del mondo botanico che stupiva perché per tuo tramite scoprivamo suoni nuovi, mai uditi prima. Quando hai introdotto al nostro udito, e dunque alla nostra coscienza, i canti sommersi delle balene, ciò era nuovamente frutto della tua profonda e generosa immaginazione della realtà, mentre una volta in più rendevi percepibili i limiti del mondo così come eravamo abituati a vederlo e a concepirlo. Come quella volta che hai fatto emergere i suoni della saliva fino a renderli chiari all’orecchio umano, ci trasformavi tutti in esseri infinitamente piccoli, e ancora una volta provavamo il senso di una grandiosa scoperta. Quando hai concepito la musica territoriale,[5] anche allora hai forzato, allargandola, la scala umana: grazie a te diventavamo giganti. Con le tue opere hai trasformato ciascuno di noi in Alice e in Gulliver. Ci hai fatto viaggiare in realtà insospettabili. Nella vita e nell’arte, che per te erano francamente tutt’uno, eri un formidabile catalizzatore di coincidenze.[6] Avevi l’eleganza nonchalant del Dandy.[7] Ci rapivano i metodi di “archiviazione di abiti” altrui, I modi di sistemare il guardaroba, e condividevamo la predilezione per il criterio cromatico.
Avevi l’estro di un impresario da circo[8], avevi sulle labbra il sorriso di chi sa che la vita è un continuo happening.
Eri attratto dalla rarefazione, dal vuoto. Incarnavi la Depanse.[9]
Quando ti penso vedo un vulcano in eruzione, con i lapilli che esplodono in tutte le direzioni, un vulcano che può essere anche silente ma sempre attivo. Sono finiti i nostri incontri ma non i nostri discorsi, che hanno preso per me la piega di un infinito intrattenimento. Esattamente come le tue polveri che non smettono di fiorire come fuochi d’artificio o galassie in formazione, nei tuoi cieli magnetici. [10]
Riassumendo: il mondo secondo Mosconi è un grande ready made in cui egli si sentiva libero, sia nell’ambito musicale che in quello fotografico, tanto di comporre personalmente quanto di prelevare, indifferentemente dal contesto, suoni e immagini preesistenti, dando forma ad una delle modalità di appropriazione più variegate e poliedriche nel panorama delle arti. Era un ascoltatore, un osservatore, un assemblatore, un immaginatore instancabile. Un motore sempre acceso.
[1] Il lavoro fotografico di Davide Mosconi e perlopiù realizzato con Polaroid in bianco e nero di uno speciale formato extra size.
[2] Ciclo fotografico intitolato Giro del mondo del 1970-1972.
[3] I cicli Day Skies e Night Skies (1990-1991) sono costituiti per perlopiù da trittici composti dall’ accostamento di immagini fotografiche che non necessariamente hanno per soggetto il cielo ma qualcosa che lo sguardo identifica immediatamente come tale. Il repertorio di queste immagini è formato indifferentemente da prelievi cataloghi altrui e da scatti propri.
[4] Petali che cadono, 1996, per Luisa Delle Piane.
[5] La musica territoriale è praticata e progettata a lungo da Davide nel corso tempo e costituisce un capitolo particolarmente avvicente della sua ricerca. Con un immaginario aperto ai suoni di diversissima natura eppure connessi ai territori, egli ha concepito concerti per campane in cui i campanili di diversi paesi si rispondevano espandendo sonorità per monti e valli, mescolandosi a corni da nebbia e petardi…
[6] Le coincidenze sono state uno dei soggetti preferiti d’indagine da parte di Mosconi, soprattutto nel lavoro fotografico. Per esempio i trittici degli anni Ottanta creavano un dialogo fotografico a più voci a partire proprio dalla scoperta di vistose e misteriose coincidenze tra immagini presistenti lontanissime fra loro per finalità, destinazione e contesto. Egli faceva incursione degli anonimi repertori dei manuali scientifici (di patologia clinica, di criminologia e di astronomia…) come nelle collezioni dei musei composte da fotografie firmate da autori famosi, allo stesso modo utilizzava immagini anonime scattate dai fotografi di cartoline. Dal confronto emergevano soprattutto la potenza eversiva e l’autonomia poetica delle immagini che vanno molto al di là dell’intenzione di ogni autore.
[7] È giusto includere nel grande e articolato lavoro creativo di Davide Mosconi anche il suo guardaroba, oggi purtoppo disperso.
[8] Tra la grande quantità di lavoro sommerso di Davide Mosconi figurano molti progetti per eventi globali, interdisciplinari, come si diceva negli anni Settanta, anche non realizzati. Tra questi mi piace ricordare La luce del suono del 1984 che avrebbe dovuto svolgersi a Linz nel 1986. Egli prevedeva di seppellire la zona centrale della città con una coltre di neve artificiale prodotta da quattro apposite macchine e di avvolgerla nella nebbia, nebbia provocata in parte artificialmente e in parte derivata dall’immersione nel Danubio di 10 tonnellate di ghiaccio secco in barre. In questo scenario Carmengloria Morales avrebbe dovuto dipingere in diretta un certo numero di elefanti che avrebbero naturalmente barrito. Contemporaneamente il cielo sarebbe disegnato da fuochi d’artificio e il Danubio si sarebbe trasformato in una camera acustica per due grandi sculture sonore che avrebbero dovuto essere appese ai ponti. Il corso del fiume avrebbe dovuto essere utilizzato come via d’acqua, percorso da una chiatta carica di corni da nebbia, sirene e strumenti di segnalazione acustica marittima, e attraversato da parecchi motoscafi infuocati. Era previsto che tutto ciò avvenisse tra gli scoppi di numerosi petardi e mentre quattro bande municipali intonavano contemporaneamente diverse sonate.
[9] La rarefazione sembra essere la vocazione degli ultimi cicli esposti alla Galleria Milano di Milano di Milano nel 1998 e allo Studio Dabbeni di Lugano nel 1999. Le immagini polverizzano e rendono siderale il soggetto fotografato, stemperandolo nell’ampiezza del nulla. Il discorso intorno al vuoto si riaggancia facimente a quello mostrato alla Galleria Primo Piano di Torino nel 1974, e vi si radica. Il lungo titolo dell’esposizione descrive in modo scientifico il metodo: Rilevamento di 30 punti di vista all’interno di uno spazio eseguito il 24 marzo 1974 con fotografie Polaroid del formato 8 x 8 appesa nel punto esatto dove si trovava la macchina appoggiata all’occhio. La presentazione della tautologia è scelta da Davide Mosconi, come negli stessi anni anche da Giulio Paolini, ad esempio, per proporre il teatro nel vuoto. Della centrslità del vuoto in Mosconi è complice anche il Buddhismo.
[10] La prima cosa che vedo la mattina al risveglio e l’ultima alla sera prima di chiudere gli occhi è un lavoro di Davide che appartiene al ciclo delle polveri, fissato con mobilità sul suo supporto, una lastra in ferro, per l’azione di piccole calamite. I magneti, già presenti in alcuni lavori dal 1982, qui funzionano anche come grado estremo di fisicizzazione della polvere, mentre alludono in modo esplicito alle forze invisibili del cosmo.
Il presente testo è la nuova redazione riveduta e corretta di una prima versione scritta alla morte di Davide Mosconi e pubblicata priva del nome dell’autore e in modo non corretto, mescolando note e testo, in “Immagini Fotopratica”, n. 328, 2002, pp. 168-169. In seguito lo stesso testo è stato da Elio Grazioli attribuito erroneamente a Roberto Mutti (Elio Grazioli, Davide Mosconi: fotografia, musica, design, 2014, p. 127)