DAVIDE MOSCONI

Siamo tutti abituati a osservare strumenti di alta precisione a funzionamento casuale. Questi strumenti sono i barometri, i termometri, e altri strumenti a funzione sensoriale per non dire delle banderuole che, sui tetti delle case, segnalano la direzione dei venti, eccetera. Tutti questi strumenti sono progettati in modo rigoroso ma la loro funzione di informare l’osservatore è puramente casuale.

Davide Mosconi costruisce le sue opere sonore, lasciandosi andare ascoltando solo l’istinto, e inventando al momento quelle leggi e quelle tecniche più adatte alla realizzazione di “Ricostruzioni teoriche di suoni (suoni?) immaginari, mediante frammenti di residui acustici di uso ignoto e di origine incerta”. Esempio: frammenti di vetri (di che forma? di che colore? di che spessore? di che dimensione? di che categoria?) sui quali è applicato un motorino prodotto industrialmente, ma appositamente alterato nelle sue funzioni da un bisogno di spiazzamento dell’origine (se si può dire). Davide altera poi in modo calcolatamente casuale (?) alcune parti dello strumento che emetterà i suoni, e addirittura aggiunge altri elementi che (guarda caso) si trovavano a pochi millimetri di distanza dallo strumento industriale. Nel caso che il tutto non fosse abbastanza casuale, Davide inventa (per caso) alcuni particolari finti meccanici, disposti in modo da ottenere una ottima audizione (per intenderci). Ma di che cosa? Davide assicura che il concerto è del tutto casuale, di una casualità non banale (se così si può dire) ma provocata e non definita in nessun particolare.

Musica al momento (il momento dopo è diversa).

E lo spartito? sparito.

 

Bruno Munari

Il Sogno di Davide

Queste immagini sono anche sogni e potrebbero agevolmente essere decifrate a livello di significato, di iconografia, di inconscio. Ma forse non ne vale la pena, tanto più che, com’è nella più bella tradizione surrealista, l’effetto di estraniazione e la tensione poetica coincidono e insieme si « abitano » vicendevolmente; inoltre, e soprattutto, si tratta di sogni sognati: più precisamente della costruzione del sogno di un sogno. E più interessante considerarle sogni in un altro senso, nel senso per cui il vocabolo “sogno” quasi coincide col vocabolo desiderio. Allora, poiché si tratta di fotografia o, diciamo, di materiale fotografico manipolato in vista di un senso che infrange le regole fisse della tecnica, si può intendere che qui la fotografia sogna di diventare un’altra cosa, di scavalcare l’ambito del genere che essa costituisce e che le è prescritto dalla sua origine tecnica, dalla sua storia dal secolo scorso a oggi, e dalla sua precisa collocazione « sociale » nell’ambito dei mezzi di riproduzione e di alterazione del reale — detto per inciso, rende la fotografia il genere più pericolosamente esposto alle peggiori compromissioni. La fotografia non è mai stata neutra: mi viene in mente un dagherrotipo che effigia Schelling verso il 1830 e che ha una forza espressiva, quasi aggressiva, degna di un ritratto di Velasquez; Walter Benjamin, nella sua stupenda storia della fotografia, indugia, per esempio, nell’interpretazione dei ritratti fotografici di Kafka. Ma, insieme, la fotografia è passibile di un’estrema sofisticazione meccanica dell’immagine, praticamente illimitata, e ricordo una serie di fotografie di Mosconi che di una simile sofisticazione erano, nel male e nel bene, un esempio egregio. Forse, quando tocca un limite del proprio narcisismo tecnico, la fotografia vive una fase che è di tutti i generi espressivi quando si interrogano su se stessi perché hanno raggiunto una sindrome di saturazione nel rapporto, loro immanente, tra «discorso» e storia: il genere si sventra e tende a migrare da sé: il romanzo sogna la poesia o la matematica, la pittura diventa, per esempio, ambiente o grafia, la musica rimpiange e talora ritrova un puro rumore . Il sogno di Davide, il suo sogno di un sogno, è il segno di una simile trasmigrazione: la fotografia, sventrata, alterata, forma una zona da cui suggerire «sensi» che il suo fatalismo di genere le avrebbe vietato. Palesemente, qui, la terra nuova è la pittura: ma forse è dire troppo, specie in un periodo in cui la pittura tende ad assimilare la fotografia; forse, piuttosto, la terra nuova è il sogno di un senso dell’immagine non ricuperabile dal genere, libero.

Grande Accordo Cromatico

Negli albori dell’arte, dal paleolitico al trapianto del cuore (oggi), l’uomo, natura divina, solo lui dotato di questo magnifico sentimento: l’arte, di cui questo è il caso, della musica, l’uomo, dicevo, nacque con essa perché lui Stesso è suono. armonia e vibrazione, e la donna ne è l’accordo. Il Grande Accordo Cromatico si riferisce a un gesto violento di una estrinsecazione atavica, poetica dell’essere. perché in continuo Contrasto con quello che Io circonda: rumore sgradevole, prostituzione, stupro, corruzione, turpiloquio e depravazione, autore esso Stesso di tutto questo. II Grande Accordo Cromatico (G.A.C.) è solo un gesto di ribellione al cospetto del prossimo e una violenza su se stessi. La gestazione di tale opera fu a portata di importanti musicisti: anche se inconsciamente Wagner, precursore dl tale cromaticismo, e Beethoven, sognatore di sirene marine, ne intuirono di spunti cromatici! e poi così via fino agli antichi greci, a Platone. a Sofocle. II gesto di codeste note è comunque sempre messaggio. La corda. Il fiato, lo sgamellio di cucina eccetera. L’orecchio è l’apice, meglio, all’apice. Di tre scale voglio parlare per avvicinare anche il più sprovveduto, a questo campo; prima: iperacuta cioè iperlidia; iperfrigia e iperdorica cioè ipermedia. Le tre scale collocate a un parabolico modulante con altre scale anche se meno cromatiche. ma necessariamente ribaltate con armonie di tono testuale, possono comunque solfeggiare in una simbiosi dl scala egnometrica, strumento base di e per, esclusivamente, corista. Questo limite, al limite. se ritenuto come limite, può dare un palese effetto sgradevole all’orecchio. Potrei citare un verso di Froid, ma non ne ritengo il caso. La chiave di questo raffronto è nel contesto del raffronto soggettivo di un qualsiasi autore, anche Se di scala o scale precarie. gestazione disi tal boato, in G.A.C (Grande Accordo Cromatico), può suscitare spunti a chi minacci di aborto, anche se di musica non tratti specificatamente. Prendiamo ad esempio Nobel, inventore della polvere da sparo. nel cui inconscio vi era un focolare di scalette e di note armoniche musicali, pertanto non educate, e purtroppo erroneamente, a tal fine. Quindi, per concludere, G.A.C. è il boato, inteso come messaggio armonico musicale di rottura, nel riguardo dell ‘etichetta che si è portati ad applicare a messaggi altrui. L’onestà e il coraggio vanno premiati. In altra scala, anche se dadaista, Russolo no, ma bensì la significanza a posteriori dei manifesti, purché sia visiva come il cristallo liquido di fonte, che è armonia di suoni, sogno di muse e cornamuse, I’ uomo accorda il suo strumento penetrando: ne è testimone l’orecchio, che è testimone a tale opera, del piacere, dell’orgasmo, della delizia, del godimento e del riposo. Questa è l’armonia dell’uomo nella sua più autentica autenticità! G.A.C. è un’opera studiata e maturata, il frutto di un compositore moderno sintetico e intelligente. Perché l’autore con questo macigno di legno camuffato di velluto rosso in un sol colpo racconta l’iter della musica eliminando una volta per tutte quella goffa e statica forma che è il pianoforte, privandolo in un istante della sua vera esistenza ed esaurendo così una continuità fra uomo e strumento? Ce lo domandiamo più volte senza trovare risposta, comunque la sintesi di questo gesto rimarrà impressa come un’istantanea scattata e il ricordo uditivo sarà quello di aver sentito la musica una volta per tutte per poi passare ad altro.

 

Mario Tortora a Davide Mosconi

Giocare con serietà

Le idee e le esperienze che sono alla base dei recenti lavori di Davide Mosconi sono di una disarmante semplicità, e tuttavia molto pertinenti.
Coloro che occasionalmente si trovassero a curiosare nell’immenso archivio di immagini fotografiche che raccolga 150 anni di storia della fotografia, presto o tardi si renderebbero conto che alcune di esse sono state realizzate più di una volta.
Certi fotografi, senza conoscere presumibilmente l’uno il lavoro dell’altro e a volte anche a distnza di anni, sono stati colpiti da forme incredibilmente simili.
Talvolta riconoscevano queste forme in soggetti similari, altre volte in situazioni analoghe ma altre ancora, soggetti e situazioni non avevano invece nessuna relazione tra loro.
Queste considerazioni sono in netto contrasto con le richieste fondamentali che la società occidentale aveva posto al nuovo mezzo, fin dalla sua nascita.
All’interno di questa tradizione, la fotografia era considerata l’unico mezzo per riprodurre fedelmente la realtà e di conseguenza per impossessarsene; ma cosa succede quando si riesce a dimostrare che differenti realtà possono produrre la stessa immagine?
E ancora: in una simile circostanza, quale è la realtà?

Nei suoi precedenti lavori Davide Mosconi ha illustrato questi problemi in modo descrittivo.
Ha raccolto immagini che non avevano apparentemente nessuna relazione tra loro, ma che una volta giustapposte e riprodotte sullo stesso supporto, improvvisamente sembravano sorelle.
In realtà, durante questa prima esperienza, Mosconi creava trittici composti da due immagini trovate, e completati da una terza scattata da lui. Con la sua terza immagine l’autore sottolineava ancora una volta che ciò che conta in fotografia non è la rappresentazione, né tantomeno ciò che è stato rappresentato, ma la forma, la figura che uno percepisce e riconosce, e che investe di uno o più significati.
Le immagini fotografiche non sempre sono delle vedute sul mondo.
A volte sono dei mondi in se stesse.

È importante notare come in questi lavori Mosconi abbia voluto usare immagini classiche, appartenenti alla storia della fotografia.
A prima vista si può pensare che in questo modo l’autore si stesse infilando un ginepraio; ma è proprio utilizzando immagini di questo tipo che si arriva a capire meglio il fine del lavoro.
Più le immagini sono conosciute e più è facile dimenticarne il contenuto, per arrivare a “vedere” ciò che esse sono realmente: forme, figure, fotografie.

Una simile azione sovversiva nei confronti della fotografia si può ritrovare in altri trittici appartenenti alla serie dei Day Skies (Cieli Diurni). In questa serie vengono utilizzate immagini che potrebbero essere descritte come paesaggi aerei, perché questi in effetti sono dei cieli, con una forte connotazione paesaggistica. E nonostante l’autore usi tre immagini diverse, con la linea d’orizzonte che corre al piede, si ha l’illusione di una sola coerente realtà.
Il carattere esplicativo di questi ultimi lavori ha ceduto il passo a un approccio più poetico e astratto, che a volte riesce ad essere anche giocoso.

La serie dei Night Skies (Cieli Notturni) consiste in un gruppo di trittici composti mettendo insieme immagini apparentemente di origine astronomica, della via Lattea o di nebulose. Per due terzi ciò corrisponde certamente al vero, ma nel frattempo ci si rende conto, anche se non lo si nota chiaramente, che in ogni trittico una fotografia è fatta in studio spruzzando forse solo un po’ di polvere su una superficie anonima.
Questo tuttavia non ci impedisce di vedere in questi trittici spazi infiniti nei quali perdersi liberando i nostri pensieri. Qui possiamo trovare pace riflettendo sul fatto che tutto è relativo (anche queste stesse fotografie).

Nella serie più recente intitolata Drawing Air (Disegnare l’aria) Davide Mosconi si è liberato della segreta ambiguità che nei lavori precedenti era parte essenziale della sua strategia e dei suoi contenuti. In questo nuovo lavoro gioca a carte scoperte. Sicuro di sé Mosconi si esibisce in un rischioso esercizio al trapezio.
È evidente, in queste foto, che ciò che si mostra non è ciò che si rappresenta.
Anche qui vediamo immagini cosmiche, piogge di stelle, scintille nella notte infinita, saette lucenti che attraversano l’universo.
Tuttavia siamo coscienti del fatto che sono illusioni.
Qui la realtà, vista da vicino, è molto più prosaica.
Si tratta infatti di oggetti e materiali buttati in aria e colti in volo. Ma la cosa più importante è che se ci si abbandona a queste immagini, se si è disposti a confrontarsi con esse senza malizia ma con la medesima innocenza dell’autore al momento dello scatto, ci si accorgerà che il premio di questa resa è un’esperienza indimenticabile.

 

 

Lettera per davide (con qualche nota per il lettore)

Quando hai sposato la Polaroid[1] è stato per aderire con immediatezza all’eventuale.

Quando hai fotografato esattamente i luoghi corrispondenti ai punti di vista degli anonimi fotografi di cartoline urbane, ovvero ha scattato inquadrando la porzione di spazio dove presumibilmente, secondo i tuoi calcoli, ciascuno di loro poggiava i piedi, mentre facevi una specie di censimento delle sorgenti dello sguardo e un inventario indiretto delle vedute, eri un paesaggista molto sui generis.[2]

Quando mescolavi le carte fra galassie e polveri, saresti piaciuto anche a De Chirico che ti avrebbe accolto con onori fra gli s/paesaggisti.[3]

Quando disegnavi l’aria in omaggio a Munari, ripetevi anche il gesto duchampiano che ha introdotto l’alea nell’arte visiva contemporanea, ma tu, in sintonia con il primo e diversamente dal secondo dei tuoi riferimenti, sceglievi di scattare durante il volo piuttosto che documentare l’arresto, l’assetto preso dagli oggetti dopo la caduta. Si trattava ancora una volta di captare e restituire una configurazione casuale e momentanea (questo il vero senso dell’istantanea).

Quando che hai mostrato la tua città, le gambe di Inez come Arco della Pace, sottolineavi che l’unico luogo da cui tutto il resto deriva è il vissuto e ti comportavi come un reporter sentimentale.

Quando hai svelato la musica innata dei petali che cadono,[4] eri come Lorenz con le sue oche, una specie di etologo del mondo botanico che stupiva perché per tuo tramite scoprivamo suoni nuovi, mai uditi prima. Quando hai introdotto al nostro udito, e dunque alla nostra coscienza, i canti sommersi delle balene, ciò era nuovamente frutto della tua profonda e generosa immaginazione della realtà, mentre una volta in più rendevi percepibili i limiti del mondo così come eravamo abituati a vederlo e a concepirlo. Come quella volta che hai fatto emergere i suoni della saliva fino a renderli chiari all’orecchio umano, ci trasformavi tutti in esseri infinitamente piccoli, e ancora una volta provavamo il senso di una grandiosa scoperta. Quando hai concepito la musica territoriale,[5] anche allora hai forzato, allargandola, la scala umana: grazie a te diventavamo giganti. Con le tue opere hai trasformato ciascuno di noi in Alice e in Gulliver. Ci hai fatto viaggiare in realtà insospettabili. Nella vita e nell’arte, che per te erano francamente tutt’uno, eri un formidabile catalizzatore di coincidenze.[6] Avevi l’eleganza nonchalant del Dandy.[7] Ci rapivano i metodi di “archiviazione di abiti” altrui, I modi di sistemare il guardaroba, e condividevamo la predilezione per il criterio cromatico.

Avevi l’estro di un impresario da circo[8], avevi sulle labbra il sorriso di chi sa che la vita è un continuo happening.

Eri attratto dalla rarefazione, dal vuoto. Incarnavi la Depanse.[9]

Quando ti penso vedo un vulcano in eruzione, con i lapilli che esplodono in tutte le direzioni, un vulcano che può essere anche silente ma sempre attivo. Sono finiti i nostri incontri ma non i nostri discorsi, che hanno preso per me la piega di un infinito intrattenimento. Esattamente come le tue polveri che non smettono di fiorire come fuochi d’artificio o galassie in formazione, nei tuoi cieli magnetici. [10]

 

Riassumendo: il mondo secondo Mosconi è un grande ready made in cui egli si sentiva libero, sia nell’ambito musicale che in quello fotografico, tanto di comporre personalmente quanto di prelevare, indifferentemente dal contesto, suoni e immagini preesistenti, dando forma ad una delle modalità di appropriazione più variegate e poliedriche nel panorama delle arti. Era un ascoltatore, un osservatore, un assemblatore, un immaginatore instancabile. Un motore sempre acceso.

 


[1] Il lavoro fotografico di Davide Mosconi e perlopiù realizzato con Polaroid in bianco e nero di uno speciale formato extra size.

[2] Ciclo fotografico intitolato Giro del mondo del 1970-1972.

[3] I cicli Day Skies e Night Skies (1990-1991) sono costituiti per perlopiù da trittici composti dall’ accostamento di immagini fotografiche che non necessariamente hanno per soggetto il cielo ma qualcosa che lo sguardo identifica immediatamente come tale. Il repertorio di queste immagini è formato indifferentemente da prelievi cataloghi altrui e da scatti propri.

[4] Petali che cadono, 1996, per Luisa Delle Piane.

[5] La musica territoriale è praticata e progettata a lungo da Davide nel corso tempo e costituisce un capitolo particolarmente avvicente della sua ricerca. Con un immaginario aperto ai suoni di diversissima natura eppure connessi ai territori, egli ha concepito concerti per campane in cui i campanili di diversi paesi si rispondevano espandendo sonorità per monti e valli, mescolandosi a corni da nebbia e petardi…

[6] Le coincidenze sono state uno dei soggetti preferiti d’indagine da parte di Mosconi, soprattutto nel lavoro fotografico. Per esempio i trittici degli anni Ottanta creavano un dialogo fotografico a più voci a partire proprio dalla scoperta di vistose e misteriose coincidenze tra immagini presistenti lontanissime fra loro per finalità, destinazione e contesto. Egli faceva incursione degli anonimi repertori dei manuali scientifici (di patologia clinica, di criminologia e di astronomia…) come nelle collezioni dei musei composte da fotografie firmate da autori famosi, allo stesso modo utilizzava immagini anonime scattate dai fotografi di cartoline. Dal confronto emergevano soprattutto la potenza eversiva e l’autonomia poetica delle immagini che vanno molto al di là dell’intenzione di ogni autore.

[7] È giusto includere nel grande e articolato lavoro creativo di Davide Mosconi anche il suo guardaroba, oggi purtoppo disperso.

[8] Tra la grande quantità di lavoro sommerso di Davide Mosconi figurano molti progetti per eventi globali, interdisciplinari, come si diceva negli anni Settanta, anche non realizzati. Tra questi mi piace ricordare La luce del suono del 1984 che avrebbe dovuto svolgersi a Linz nel 1986. Egli prevedeva di seppellire la zona centrale della città con una coltre di neve artificiale prodotta da quattro apposite macchine e di avvolgerla nella nebbia, nebbia provocata in parte artificialmente e in parte derivata dall’immersione nel Danubio di 10 tonnellate di ghiaccio secco in barre. In questo scenario Carmengloria Morales avrebbe dovuto dipingere in diretta un certo numero di elefanti che avrebbero naturalmente barrito. Contemporaneamente il cielo sarebbe disegnato da fuochi d’artificio e il Danubio si sarebbe trasformato in una camera acustica per due grandi sculture sonore che avrebbero dovuto essere appese ai ponti. Il corso del fiume avrebbe dovuto essere utilizzato come via d’acqua, percorso da una chiatta carica di corni da nebbia, sirene e strumenti di segnalazione acustica marittima, e attraversato da parecchi motoscafi infuocati. Era previsto che tutto ciò avvenisse tra gli scoppi di numerosi petardi e mentre quattro bande municipali intonavano contemporaneamente diverse sonate.

[9] La rarefazione sembra essere la vocazione degli ultimi cicli esposti alla Galleria Milano di Milano di Milano nel 1998 e allo Studio Dabbeni di Lugano nel 1999. Le immagini polverizzano e rendono siderale il soggetto fotografato, stemperandolo nell’ampiezza del nulla. Il discorso intorno al vuoto si riaggancia facimente a quello mostrato alla Galleria Primo Piano di Torino nel 1974, e vi si radica. Il lungo titolo dell’esposizione descrive in modo scientifico il metodo: Rilevamento di 30 punti di vista all’interno di uno spazio eseguito il 24 marzo 1974 con fotografie Polaroid del formato 8 x 8 appesa nel punto esatto dove si trovava la macchina appoggiata all’occhio. La presentazione della tautologia è scelta da Davide Mosconi, come negli stessi anni anche da Giulio Paolini, ad esempio, per proporre il teatro nel vuoto. Della centrslità del vuoto in Mosconi è complice anche il Buddhismo.

[10] La prima cosa che vedo la mattina al risveglio e l’ultima alla sera prima di chiudere gli occhi è un lavoro di Davide che appartiene al ciclo delle polveri, fissato con mobilità sul suo supporto, una lastra in ferro, per l’azione di piccole calamite. I magneti, già presenti in alcuni lavori dal 1982, qui funzionano anche come grado estremo di fisicizzazione della polvere, mentre alludono in modo esplicito alle forze invisibili del cosmo.

Il presente testo è la nuova redazione riveduta e corretta di una prima versione scritta alla morte di Davide Mosconi e pubblicata priva del nome dell’autore e in modo non corretto, mescolando note e testo, in “Immagini Fotopratica”, n. 328, 2002, pp. 168-169. In seguito lo stesso testo è stato da Elio Grazioli attribuito erroneamente a Roberto Mutti (Elio Grazioli, Davide Mosconi: fotografia, musica, design, 2014, p. 127)

 

 

Le felici coincidenze

Parlare di Davide mi riesce sempre difficile e mi spaventa anche un pochino perché lui non c’è per rispondermi, bacchettarmi e dirmi – forse – che non capisco niente. Non che sia successo spesso ma, malgrado la grande e affettuosa amicizia che ci legava, dovevo stare sempre attenta a non dire “banalità”. Davide aveva orrore del banale. Era lucido, intelligente, acuto, curioso e spiritoso. Si interessava di ogni cosa della vita ed era disponibile ad ascoltare le opinioni di tutti (purché non “banali”), era sempre desideroso di conoscere e sperimentare. Esprimeva la sua creatività in ogni campo artistico e non. Nella musica, negli oggetti sonori, nella fotografia e fotografia pubblicitaria, nelle performances, nel design (mobili e oggetti per casa propria) ma anche nel giardinaggio e nel proprio abbigliamento.

Mi chiedete quando ci siamo conosciuti. Non lo so, non ricordo, a volte mi sembra di averlo sempre conosciuto, ma non è vero. Negli anni settanta andavo alle feste in casa sua in via dell’Orso. Più o meno tutte le sere la loro casa era aperta a tutti, una marea di persone andava e veniva, fiumi di bevande e musica a palla. In quella casa enorme c’era un solo bagno senza porta, chiuso solo da una tenda…. Davide aveva ancora una lunga coda di cavallo ma dopo che una sera, sotto casa sua, uno scippatore lo aggredì e gli strappò coda e i capelli, si fece rasare a zero.

La nostra amicizia si fece più stretta dopo i concerti – performances eseguiti con Juan Hidalgo e Walter Marchetti e organizzati da Gianni Sassi per Milano Poesia nel 1987 alla Rotonda della Besana e all’Ansaldo.

Da allora Davide frequentò regolarmente la galleria. Arrivava con la sua macchinona americana – una Dymler d‘epoca mi pare, con cui – secondo Ines – viaggiava lentissimo. Non potevo non osservare con attenzione il suo modo di vestire: era sempre curatissimo, personale e bizzarro. Una volta seduti nel mio studio con un caffè o un bicchiere in mano, cominciavamo a chiacchierare per ore. Si parlava un po’ di tutto: di progetti, arte, fatti del giorno o personali, parlavamo di fiori e – di tanto in tanto – spettegolavamo un po’, ma l’argomento principale divennero presto le coincidenze sia nei nostri sogni che nella realtà.

La prima mostra nella mia galleria è stata quella dei Cieli” nel febbraio 1998. Venivano esposti due cicli di lavoro: “Trittici del cielo” e il ciclo Disegnare l’aria”. I trittici erano realizzati con la Polaroid grande formato messa a sua disposizione dalla Polaroid stessa, che in seguito gli conferì il primo premio. In tutti e due i lavoro la ricerca sul caso e sulla simultaneità si era fatta più evidente. Osservando le fotografie di cieli di notte e di giorno trovate sia sui libri e atlanti consultati nella biblioteca del padre come pure in volumi sulla fotografia d’arte, Davide ebbe modo di constatare che alcune immagini scattate in luoghi e in epoche diverse erano molto simili. Ne selezionò sempre due, le rifotografò con la Polaroid grande formato ne aggiunse una terza, sua .( Ho scoperto molto più tardi che nei trittici aveva trattato molti altri temi, molti dei quali vennero esposti per la prima volta in Italia da Elio Grazioli nel 2011 a Reggio Emilia. (Trittico delle torte, dei bombons, del corpo, delle membra, delle tavole imbandite, degli incappucciati e così via. L’ultimo lavoro che abbiamo anche esposto noi a Milano erano “5 trittici in morte del padre”.

Il ciclo “Disegnare l’aria “ è la casualità che la fa da padrone. Con soli tre scatti Davide aveva fotografato oggetti vari: corde, bacchette, rami, pezzi di stoffa, palline che, lanciati in aria avrebbero disegnato il cielo. Le immagini sarebbero state casuali. Davide diceva inoltre che considerava questo lavoro anche un omaggio all’amico Bruno Munari che, negli anni cinquanta, aveva lanciato da una torre pezzetti di carta di forme diverse con l’intento di “far vedere l’aria”. La sua era una azione analoga e opposta, lui disegnava il cielo.

Ma la mostra di maggior impegno e che ho seguito più da vicino fu quella successiva quella delle “Polveri”. Ormai parlavamo spesso delle coincidenze della vita, ci raccontavamo aneddoti e sogni relativi all’argomento. In questo ciclo di lavori Davide intendeva arrivare ad eliminare o quasi l’intervento del fotografo. Non doveva essere il fotografo a scegliere una inquadratura, sarebbe stato il caso a fissare l’immagine di queste polveri lanciate in aria. Polveri d’argento, d’oro e di scaglie di pietre preziose e semi-preziose. L’operazione era così concepita: appoggiare le polveri o i frammenti di pietre su un telo di gomma fissato su una branda, la macchina fotografica restare fissa e, tirando da sotto con forza il telo di gomma, far volare in aria le polveri. L’apparecchio fotografico avrebbe fissato il volo coì come il caso voleva. Il lancio ma soprattuttonle pietre e le polveri avrebbero sprigionato energia. Lui stesso, fotografo solo il un tramite vissuto attraverso una infinita serie di coincidenze, non l’autore.

Sarebbe partito al più presto per Jaipur, famoso centro internazionale di tagliatori di pietre preziose e semipreziose, dove sperava di trovare le scaglie o frammenti di scarto necessari per il lavoro che aveva in mente. Tornò felice. Nel primo bar aveva chiesto a un avventore se per caso potesse indicargli un tagliatore, e chi non era l’avventore se non il più rinomato tagliatore del posto? Questi, entusiasta dell’idea di Davide, si mise a sua completa disposizione. Altra felice coincidenza.

Gli inviti alla mostra sarebbero stati stampati in argento su un cartoncino blu notte e Francesco Saba Sardi avrebbe scritto per l’occasione un bellissimo testo poetico. Al momento di imbustarli anche Davide venne a dare una mano. In quel momento nacque l’idea di mettere negli inviti un po’ di polvere d’argento per disegnare i vestiti e le case dei destinatarii. Molto successo ma anche lamentele dalla parte di chi si vedeva costretto a spazzolare tutto. (Lo stesso impiegato delle poste qualche giorno dopo mi riconobbe e mi minacciò, ridendo,di mandare alla galleria il conto della tintoria.)

Con Davide era bello non solo avere il suo parere su i miei progetti, ma anche ridere e giocare

Solo in seguito dopo la sua improvvisa tragica morte, nell’organizzare con Ines le altre sue mostre e concerti, ebbi modo di conoscere ulteriori sue ricerche di cui però parleremo in un’altra occasione.

 

 

Per Ultrafilosofia – Milano, Giugno 2013

 

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L’aura delle coincidenze

Dialogo di Toto Roccuzzo con Davide Mosconi a proposito dei suoi Trittici Fotografici.

 

Mi sveglio una mattina e penso intensamente a Emilio, un amico che abita quattrocento chilometri più a sud di dove mi trovo. Continuo a pensarlo con intensità tale che afferro la cornetta e lo chiamo. La moglie mi dice che è in ospedale perché sua madre sta male. Finalmente lo trovo. Lo raggiungo proprio un minuto prima che decida se far operare o no la madre alla quale hanno diagnosticato un tumore al cervello. Ed Emilio mi dice: “Ho deciso la faccio operare”. Io lo conforto: “Andrà tutto bene”. Ed è andata bene, la madre di Emilio vive ancora.

Quante volte vi è capitato di pensare a una persona che non vedete da anni e, all’improvviso, eccola che si materializza. La chiamano telepatia. O luccicanza. Shining, come dicono gli inglesi. Stanley Kubrik ha intitolato così uno dei suoi capolavori: un bambino riesce a salvare la pelle – sua e della madre – grazie alla capacità di guardare oltre le regole del tempo e dello spazio, comunicando a distanza con la forza silenziosa della mente e leggendo nel pensiero la follia omicida che si è impossessata del padre. Per rilevare un punto di vista (e dibattere) sul tema delle coincidenze Charade incontra Davide Mosconi, artista diviso a metà tra immagini e suoni. Sulle ali di Pindaro ci addentriamo nella luccicanza conversando di coincidenze, aure, sincronismi, casi, telepatie e sincronicità. La buonanima di Jung non se ne abbia a male (piuttosto s’accomodi e favorisca) se discutiamo di cose tanto impalpabili a Milano davanti a un peccaminosissimo spaghetto condito con la bottarga essiccata dai fratelli Adelfio di Marzameni e con una salsa ai capperi e olive che Carlo Hauner, un signore nato a Brescia prepara a Salina. Dio gliene renda merito, a tutti e due, anzi a tutti e tre, Jung compreso. Io trito il prezzemolo e Davide spreme sei teste d’aglio perché dice che ha la pressione alta. Mescoliamo pasta e immagini. Arriminamu. L’immagine è percezione, ma anche idea, illusione. La pasta è in tavola. Precisa. Al dente. Saporosa.

Parliamo di numeri, diamo i numeri. Anzi ne diamo uno solo: tre. “3”. È il numero perfetto, dantesco, magico. Tre sono i tempi ritmati del valzer: un-due-tre un-due-tre. Terza è la soluzione che compone ogni dualismo. Tre è terzina, tre è il terzino sinistro. Tre è il gioco delle tre carte. Tre oro vince, tre oro perde. Faittes vos jeux. Tre è il caso che, ridotto a unità governa il mondo. Lo conferma la parola stessa, tre immagini compongono un trittico. Come risultato tre a uno è il risultato perfetto. Anche i trittici mosconiani sono uni e trini. Nascono da un’idea e dalla ricerca. Iniziata per caso.

D.M.:”Nel 1982 ho appena raccolto le prime intuizioni sui trittici. Sono a New York quando incontro un libro, Double Take – Doppia presa – scritto da Richard Whelan. Lo divoro, pagina dopo pagina, come folgorato. Whelan sta cercando, mi dico, le stesse cose che cerco io. Siamo sincronici”.

T.R.:”Scusa, sincronici in che senso?”.

D.M:”Anche Whelan è a caccia di coincidenze”.

T.R.:”E allora?”.

D.M.:”Rintraccio Whelan e, siccome sto per partire e lui mi dice che deve venire in Italia, lo invito cena a Milano. Arriva. Si toglie il cappotto. Si siede in poltrona. E attacca a parlarmi di suoni. Mi chiedo: ma come? Un uomo che cerco per dialogare sulle immagini mi parla di suoni? Il suo libro parla di immagini, ma da come disserta di suoni, Whelan si occupa anche di musica. Come me. Improvvisamente ho la folgorazione, l’abbaglio. L’uomo che mi sta di fronte è il mio doppio, l’altro di me. In due posti diversi e nello stesso momento, due esseri umani che si occupano delle stesse cose iniziano una ricerca analoga. Non è solo una coincidenza, ma un trittico di coincidenze. Da quel giorno io e Richard percorriamo due strade parallele tenendoci miracolosamente per mano”.

T.R.:”Folgorazioni come elezioni di affinità, dunque intense come luci che abbagliano. E tu come hai letto quella coincidenza?”.

D.M.:”Non tanto il fatto mi stupiva, quanto il modo in cui accadeva. Niente è mai vero, nulla da’ sicurezza perché tutto scorre e si muove in continuazione. Se lo stato mentale dell’uomo è dinamico, nell’istante in cui la coincidenza t’abbaglia, devi fermarti e immortalarla. Come in un flash. La vita di ogni essere umano è costellata di segni da leggere. E quando Richard mi ha parlato per prima cosa del suono, io sono stato abbagliato. E ho cominciato una ricerca che potrebbe non avere fine: io cerco due artisti che, in tempi diversi e senza conoscersi, hanno visto la stessa inquadratura. Ritrovo le due immagini e questo abbaglio produce la mia terza foto che è come un omaggio al ritrovamento della coincidenza. Nel trittico io non fotografo, ma sono fotografato”.

T.R.:”Fotografato? In che senso?”.

D.M.:”Io sono solo il veicolo di un’illusione”.

T.R.:” E di quale illusione ti fai veicolo?”.

D.M.:”Vedi noi creiamo di fare, ma siamo fatti. Crediamo di scrivere, ma siamo scritti. Crediamo di immaginare, ma siamo immaginati. Siamo abbagliati, ma non sappiamo interpretare la luce delle aure che ci circondano. Non la utilizziamo per vivere meglio, per rendere positivo e produttivo il nostro ego”.

T.R.:”Tu come sei riuscito a rendere positivi i tuoi abbagli?”.

D.M.:”Rispondo con le parole di Elémire Zolla a proposito dell’aura delle coincidenze: <<Come nella memoria si costellano fatti lontani fra loro formando mulinelli nel flusso dei ricordi, così capita nella vita che si aprano vortici dove roteano svasati in una coincidenza, in una coincidenza, in una simultaneità inspiegabile, elementi che dovrebbero essere separati dal tempo e dallo spazio. Ne nasce, in chi vive in quegli attimi, una meraviglia pura. Un aura sprigiona da quelle sovrapposizioni>>. Sostanzialmente in queste parole è racchiuso il fondamento del mio lavoro sui trittici”.

T.R.:”Bella Maestro! Mi consenta un’ultima domanda: tre per tre?”.

D.M.:”Trentatrè!”.

 

Aprile 1995

Il canto atmosferico del “diafono urlatore”

Davide Mosconi ha catturato (prima che fosse messo a tacere) il suono dei corni da nebbia, antichi sistemi di orientamento

 

Davide Mosconi è un compositore italiano non nuovo a operazioni concettuali di valore tanto provocatorio quanto espres­sivo. Di ritorno da un viag­gio in Camargue racconta di aver comprato lo strumento musicale più grande che sia mai stato costruito. Un cor­no da nebbia in disuso chia­mato dai francesi diaphone urleur, «diafono urlatore». E lo trasporta a Trieste per farlo restaurare quasi fosse uno Stradivari. Mosconi racconta anche come mai un homo metropolitanus, qual egli è, si sia potuto appassionare al suono e alla storia dei dia­foni.

Per secoli lungo il Canale della Manica in prossimità delle scogliere inglesi, sulle coste scozzesi all’altezza del Canale di San Giorgio, più su nel Mare d’Irlanda vicino all’Isola di Man e nel Canale del Nord (ma anche lungo i litorali di Germania, Francia e Portogallo) l’unico sistema di orientamento per la navi­gazione nei tratti di mare avvolti dalla nebbia è stato garantito da corni gigante­schi la cui voce è in via d’e­stinzione. Sparati nell’oscuri­tà e dosati a intervalli rego­lari, quei suoni erano in gra­do di supplire alla luce in­sufficiente dei segnali lumi­nosi. Per la loro funzione di complemento i corni veniva­no alloggiati nelle vicinanze dei fari. Il suono veniva pro­dotto da macchinari di gran­di dimensioni attivati attraverso notevoli masse d’aria compressa, ed era amplifica­to da megafoni di vaste pro- porzioni. L’energia fornita da motori diesel serviva a pompare l’aria nei serbatoi alla pressione atmosferica desiderata. A quel punto si metteva in moto un pistone di un metro di diametro che, attraverso un meccani­smo a stantuffo, in tutto si­mile a quello della sirena, generava il suono.

Gli strumenti — i diafoni — erano orientati verso il mare e il loro “canto” pote­va essere ascoltato fino venti, a volte trenta chilo­metri di distanza: le onde sonore, riflesse dalla superfi­cie del mare, venivano tra­sportate più lontano dalle particelle di umidità della nebbia.

Entro la fine del 1992 questo sistema di segnalazio­ne acustica marittima verrà disattivato e sostituito pro­gressivamente con un più moderno sistema di orienta­mento basato sui rilevamenti dei satelliti. Il suono dei cor­ni da nebbia non accompa­gnerà più la navigazione nei mari del Nord e si trasfor­merà in una piccola, ma si­gnificativa parte della cultu­ra materiale europea appar­tenuta a un passato glorioso, a figure eroiche di capitani, ai gesti quotidiani di pesca­tori e marinai.

E chi come Davide Mo­sconi sui corni da nebbia ha lungamente sperimentato, non poteva non dedicarsi al recupero di questa “voce” che si spegne lentamente.

Dice Mosconi: «Mi è sem­brato doveroso dedicarmi a questo bene che rischiava di estinguersi nella memoria della collettività». L’idea di registrare i suoni dei fari scozzesi, inglesi e irlandesi poco prima del loro definiti­vo silenzio, è nata dall’in­contro tra Davide Mosconi e Giulio Cesare Ricci, proprie­tario della Foné, una casa discografica italiana che si distingue per recupero di atmosfere originali, ottenute grazie a tecnologie sofisticate. Racconta Ricci: «Dopo lunghe trattative con la Ma­rina militare inglese, siamo riusciti a ottenere le autoriz­zazioni per registrare gli ul­timi canti dei diafoni. Ab­biamo raccolto centinaia di suoni battendo in lungo e in largo le coste anglosassoni. Determinante è stata la uti­lizzazione di microfoni spe­ciali progettati per la Nasa».

I due italiani, il musicista e l’esperto di registrazione, ponendosi a distanze diffe­renti dalle sorgenti sonore, hanno immaginato di trovar­si in un anfiteatro fantastico e di poterle ascoltare come da una mongolfiera posta al­l’altezza di cinquemila metri. E il singolare concerto otte­nuto dalla ricomposizione in studio dei singoli segnali re­gistrati si è trasformato in un documento irripetibile, di alto valore poetico, storico e musicale.

Affermano gli autori del­l’originale recupero: «L’inci­sione è stata intitolata Musi­ca dell’anno zero — Canto dei diafoni. Viene proposta al pubblico internazionale come una musica appartenu­ta a un territorio che diviene reperto attivo, un bene col­lettivo salvato e da conser­vare».

Il Canto dei Diafoni non è destinato a rimanere solo un concerto sui generis che può essere già ascoltato su compact disc, ma a trasfor­marsi in un progetto (pre­sentato recentemente alla Comunità economica euro­pea) che si propone come punto d’arrivo la realizzazio­ne di una pubblicazione ce­lebrativa che combini testi­monianze dirette, interviste, riproduzioni di stampe d’e­poca, quadri e passi letterari per preparare e accompagna­re l’ascolto. Non per mettere in discussione l’utilità dei sa­telliti e i meriti del progres­so, naturalmente, ma perché c’è chi ritiene privo di poe­sia un mondo nel quale non trova più spazio (e non rice­ve più omaggio) nemmeno la memoria di una tradizio­ne che scompare in silenzio, romanticamente.

 

Per IL SOLE-24 ORE, 25 ottobre 1992

 

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