DAVIDE MOSCONI

Siamo tutti abituati a osservare strumenti di alta precisione a funzionamento casuale. Questi strumenti sono i barometri, i termometri, e altri strumenti a funzione sensoriale per non dire delle banderuole che, sui tetti delle case, segnalano la direzione dei venti, eccetera. Tutti questi strumenti sono progettati in modo rigoroso ma la loro funzione di informare l’osservatore è puramente casuale.

Davide Mosconi costruisce le sue opere sonore, lasciandosi andare ascoltando solo l’istinto, e inventando al momento quelle leggi e quelle tecniche più adatte alla realizzazione di “Ricostruzioni teoriche di suoni (suoni?) immaginari, mediante frammenti di residui acustici di uso ignoto e di origine incerta”. Esempio: frammenti di vetri (di che forma? di che colore? di che spessore? di che dimensione? di che categoria?) sui quali è applicato un motorino prodotto industrialmente, ma appositamente alterato nelle sue funzioni da un bisogno di spiazzamento dell’origine (se si può dire). Davide altera poi in modo calcolatamente casuale (?) alcune parti dello strumento che emetterà i suoni, e addirittura aggiunge altri elementi che (guarda caso) si trovavano a pochi millimetri di distanza dallo strumento industriale. Nel caso che il tutto non fosse abbastanza casuale, Davide inventa (per caso) alcuni particolari finti meccanici, disposti in modo da ottenere una ottima audizione (per intenderci). Ma di che cosa? Davide assicura che il concerto è del tutto casuale, di una casualità non banale (se così si può dire) ma provocata e non definita in nessun particolare.

Musica al momento (il momento dopo è diversa).

E lo spartito? sparito.

 

Bruno Munari

Il Sogno di Davide

Queste immagini sono anche sogni e potrebbero agevolmente essere decifrate a livello di significato, di iconografia, di inconscio. Ma forse non ne vale la pena, tanto più che, com’è nella più bella tradizione surrealista, l’effetto di estraniazione e la tensione poetica coincidono e insieme si « abitano » vicendevolmente; inoltre, e soprattutto, si tratta di sogni sognati: più precisamente della costruzione del sogno di un sogno. E più interessante considerarle sogni in un altro senso, nel senso per cui il vocabolo “sogno” quasi coincide col vocabolo desiderio. Allora, poiché si tratta di fotografia o, diciamo, di materiale fotografico manipolato in vista di un senso che infrange le regole fisse della tecnica, si può intendere che qui la fotografia sogna di diventare un’altra cosa, di scavalcare l’ambito del genere che essa costituisce e che le è prescritto dalla sua origine tecnica, dalla sua storia dal secolo scorso a oggi, e dalla sua precisa collocazione « sociale » nell’ambito dei mezzi di riproduzione e di alterazione del reale — detto per inciso, rende la fotografia il genere più pericolosamente esposto alle peggiori compromissioni. La fotografia non è mai stata neutra: mi viene in mente un dagherrotipo che effigia Schelling verso il 1830 e che ha una forza espressiva, quasi aggressiva, degna di un ritratto di Velasquez; Walter Benjamin, nella sua stupenda storia della fotografia, indugia, per esempio, nell’interpretazione dei ritratti fotografici di Kafka. Ma, insieme, la fotografia è passibile di un’estrema sofisticazione meccanica dell’immagine, praticamente illimitata, e ricordo una serie di fotografie di Mosconi che di una simile sofisticazione erano, nel male e nel bene, un esempio egregio. Forse, quando tocca un limite del proprio narcisismo tecnico, la fotografia vive una fase che è di tutti i generi espressivi quando si interrogano su se stessi perché hanno raggiunto una sindrome di saturazione nel rapporto, loro immanente, tra «discorso» e storia: il genere si sventra e tende a migrare da sé: il romanzo sogna la poesia o la matematica, la pittura diventa, per esempio, ambiente o grafia, la musica rimpiange e talora ritrova un puro rumore . Il sogno di Davide, il suo sogno di un sogno, è il segno di una simile trasmigrazione: la fotografia, sventrata, alterata, forma una zona da cui suggerire «sensi» che il suo fatalismo di genere le avrebbe vietato. Palesemente, qui, la terra nuova è la pittura: ma forse è dire troppo, specie in un periodo in cui la pittura tende ad assimilare la fotografia; forse, piuttosto, la terra nuova è il sogno di un senso dell’immagine non ricuperabile dal genere, libero.

Grande Accordo Cromatico

Negli albori dell’arte, dal paleolitico al trapianto del cuore (oggi), l’uomo, natura divina, solo lui dotato di questo magnifico sentimento: l’arte, di cui questo è il caso, della musica, l’uomo, dicevo, nacque con essa perché lui Stesso è suono. armonia e vibrazione, e la donna ne è l’accordo. Il Grande Accordo Cromatico si riferisce a un gesto violento di una estrinsecazione atavica, poetica dell’essere. perché in continuo Contrasto con quello che Io circonda: rumore sgradevole, prostituzione, stupro, corruzione, turpiloquio e depravazione, autore esso Stesso di tutto questo. II Grande Accordo Cromatico (G.A.C.) è solo un gesto di ribellione al cospetto del prossimo e una violenza su se stessi. La gestazione di tale opera fu a portata di importanti musicisti: anche se inconsciamente Wagner, precursore dl tale cromaticismo, e Beethoven, sognatore di sirene marine, ne intuirono di spunti cromatici! e poi così via fino agli antichi greci, a Platone. a Sofocle. II gesto di codeste note è comunque sempre messaggio. La corda. Il fiato, lo sgamellio di cucina eccetera. L’orecchio è l’apice, meglio, all’apice. Di tre scale voglio parlare per avvicinare anche il più sprovveduto, a questo campo; prima: iperacuta cioè iperlidia; iperfrigia e iperdorica cioè ipermedia. Le tre scale collocate a un parabolico modulante con altre scale anche se meno cromatiche. ma necessariamente ribaltate con armonie di tono testuale, possono comunque solfeggiare in una simbiosi dl scala egnometrica, strumento base di e per, esclusivamente, corista. Questo limite, al limite. se ritenuto come limite, può dare un palese effetto sgradevole all’orecchio. Potrei citare un verso di Froid, ma non ne ritengo il caso. La chiave di questo raffronto è nel contesto del raffronto soggettivo di un qualsiasi autore, anche Se di scala o scale precarie. gestazione disi tal boato, in G.A.C (Grande Accordo Cromatico), può suscitare spunti a chi minacci di aborto, anche se di musica non tratti specificatamente. Prendiamo ad esempio Nobel, inventore della polvere da sparo. nel cui inconscio vi era un focolare di scalette e di note armoniche musicali, pertanto non educate, e purtroppo erroneamente, a tal fine. Quindi, per concludere, G.A.C. è il boato, inteso come messaggio armonico musicale di rottura, nel riguardo dell ‘etichetta che si è portati ad applicare a messaggi altrui. L’onestà e il coraggio vanno premiati. In altra scala, anche se dadaista, Russolo no, ma bensì la significanza a posteriori dei manifesti, purché sia visiva come il cristallo liquido di fonte, che è armonia di suoni, sogno di muse e cornamuse, I’ uomo accorda il suo strumento penetrando: ne è testimone l’orecchio, che è testimone a tale opera, del piacere, dell’orgasmo, della delizia, del godimento e del riposo. Questa è l’armonia dell’uomo nella sua più autentica autenticità! G.A.C. è un’opera studiata e maturata, il frutto di un compositore moderno sintetico e intelligente. Perché l’autore con questo macigno di legno camuffato di velluto rosso in un sol colpo racconta l’iter della musica eliminando una volta per tutte quella goffa e statica forma che è il pianoforte, privandolo in un istante della sua vera esistenza ed esaurendo così una continuità fra uomo e strumento? Ce lo domandiamo più volte senza trovare risposta, comunque la sintesi di questo gesto rimarrà impressa come un’istantanea scattata e il ricordo uditivo sarà quello di aver sentito la musica una volta per tutte per poi passare ad altro.

 

Mario Tortora a Davide Mosconi

Giocare con serietà

Le idee e le esperienze che sono alla base dei recenti lavori di Davide Mosconi sono di una disarmante semplicità, e tuttavia molto pertinenti.
Coloro che occasionalmente si trovassero a curiosare nell’immenso archivio di immagini fotografiche che raccolga 150 anni di storia della fotografia, presto o tardi si renderebbero conto che alcune di esse sono state realizzate più di una volta.
Certi fotografi, senza conoscere presumibilmente l’uno il lavoro dell’altro e a volte anche a distnza di anni, sono stati colpiti da forme incredibilmente simili.
Talvolta riconoscevano queste forme in soggetti similari, altre volte in situazioni analoghe ma altre ancora, soggetti e situazioni non avevano invece nessuna relazione tra loro.
Queste considerazioni sono in netto contrasto con le richieste fondamentali che la società occidentale aveva posto al nuovo mezzo, fin dalla sua nascita.
All’interno di questa tradizione, la fotografia era considerata l’unico mezzo per riprodurre fedelmente la realtà e di conseguenza per impossessarsene; ma cosa succede quando si riesce a dimostrare che differenti realtà possono produrre la stessa immagine?
E ancora: in una simile circostanza, quale è la realtà?

Nei suoi precedenti lavori Davide Mosconi ha illustrato questi problemi in modo descrittivo.
Ha raccolto immagini che non avevano apparentemente nessuna relazione tra loro, ma che una volta giustapposte e riprodotte sullo stesso supporto, improvvisamente sembravano sorelle.
In realtà, durante questa prima esperienza, Mosconi creava trittici composti da due immagini trovate, e completati da una terza scattata da lui. Con la sua terza immagine l’autore sottolineava ancora una volta che ciò che conta in fotografia non è la rappresentazione, né tantomeno ciò che è stato rappresentato, ma la forma, la figura che uno percepisce e riconosce, e che investe di uno o più significati.
Le immagini fotografiche non sempre sono delle vedute sul mondo.
A volte sono dei mondi in se stesse.

È importante notare come in questi lavori Mosconi abbia voluto usare immagini classiche, appartenenti alla storia della fotografia.
A prima vista si può pensare che in questo modo l’autore si stesse infilando un ginepraio; ma è proprio utilizzando immagini di questo tipo che si arriva a capire meglio il fine del lavoro.
Più le immagini sono conosciute e più è facile dimenticarne il contenuto, per arrivare a “vedere” ciò che esse sono realmente: forme, figure, fotografie.

Una simile azione sovversiva nei confronti della fotografia si può ritrovare in altri trittici appartenenti alla serie dei Day Skies (Cieli Diurni). In questa serie vengono utilizzate immagini che potrebbero essere descritte come paesaggi aerei, perché questi in effetti sono dei cieli, con una forte connotazione paesaggistica. E nonostante l’autore usi tre immagini diverse, con la linea d’orizzonte che corre al piede, si ha l’illusione di una sola coerente realtà.
Il carattere esplicativo di questi ultimi lavori ha ceduto il passo a un approccio più poetico e astratto, che a volte riesce ad essere anche giocoso.

La serie dei Night Skies (Cieli Notturni) consiste in un gruppo di trittici composti mettendo insieme immagini apparentemente di origine astronomica, della via Lattea o di nebulose. Per due terzi ciò corrisponde certamente al vero, ma nel frattempo ci si rende conto, anche se non lo si nota chiaramente, che in ogni trittico una fotografia è fatta in studio spruzzando forse solo un po’ di polvere su una superficie anonima.
Questo tuttavia non ci impedisce di vedere in questi trittici spazi infiniti nei quali perdersi liberando i nostri pensieri. Qui possiamo trovare pace riflettendo sul fatto che tutto è relativo (anche queste stesse fotografie).

Nella serie più recente intitolata Drawing Air (Disegnare l’aria) Davide Mosconi si è liberato della segreta ambiguità che nei lavori precedenti era parte essenziale della sua strategia e dei suoi contenuti. In questo nuovo lavoro gioca a carte scoperte. Sicuro di sé Mosconi si esibisce in un rischioso esercizio al trapezio.
È evidente, in queste foto, che ciò che si mostra non è ciò che si rappresenta.
Anche qui vediamo immagini cosmiche, piogge di stelle, scintille nella notte infinita, saette lucenti che attraversano l’universo.
Tuttavia siamo coscienti del fatto che sono illusioni.
Qui la realtà, vista da vicino, è molto più prosaica.
Si tratta infatti di oggetti e materiali buttati in aria e colti in volo. Ma la cosa più importante è che se ci si abbandona a queste immagini, se si è disposti a confrontarsi con esse senza malizia ma con la medesima innocenza dell’autore al momento dello scatto, ci si accorgerà che il premio di questa resa è un’esperienza indimenticabile.

 

 

Musica del Paradiso



Musica del Paradiso, CD Cramps Records e sonorizzazione della “Paradise Tower” progettata da Alessandro Mendini ad Hiroshima, Japan, 1989.

LASTORIADELLA MUSICADIDAVIDE MOSCONI

LASTORIADELLAMUSICADIDAVIDEMOSCONI, libro d’artista, Do-Soul, 1989

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